Marzia Fantozzi
Mpumalanga, Khombaso, 2017
A Khombaso la felicità è mangiare pap con le mani, tutti insieme; è rincorrere bambini e fargli il solletico per ore, capendosi perfettamente anche se non si parla la stessa lingua. È scalare una collina che diventa una gloriosa impresa. È mangiare mais sotto un cielo pieno di stelle, cantando e ballando.
Le persone, qui, sono diverse. Nei loro occhi c'è una semplicità che noi abbiamo perso e che probabilmente non recupereremo più. I favori senza aspettarsi nulla in cambio esistono, ma per davvero.
La giornata inizia presto, quando i galli rendono il dormire una impresa quasi impossibile. Io dormo sul letto, le mie sorelle ospitanti si sono organizzate con dei materassi sul pavimento. L'ospitalità è sacra. Mi offrono cibo ovunque, è un gesto per dire "non posso comunicare con te attraverso le parole ma voglio dirti che sei la benvenuta e che sei parte di noi". È un villaggio semplice, qualche piccolo negozio, principalmente abitato da donne, bambini e tante, tante mucche. Gli uomini lavorano, e quando finiscono, si ubriacano. All'entrata della scuola c'è un cartello enorme che dice "vietato introdurre pistole ed armi di qualsiasi genere". Un po' mi ha spaventato. Molti degli alunni di quella scuola, oltre a studiare, devono lavorare per sostenere i loro fratelli minori. Alcuni hanno perso i genitori, altri camminano ore ed ore ogni mattina per recarsi in classe. Vogliono diventare poliziotti, insegnanti. "Questi sono gli unici lavori che puoi svolgere, qui a Khombaso", mi dicono. A pensarci, fa un po' strano. Quella è la loro piccola realtà, tagliata fuori dalla nostra. È un piccolo mondo, dimenticato, sconosciuto. La paura dell'oblio che segna l'uomo occidentale, dagli abitanti del villaggio, non è nemmeno lontanamente contemplata. Le persone, per strada, mi fermano, mi salutano, mi toccano le mani. Una bambina, ogni volta che mi vede, piange. Altri mi studiano cuoriosi chiedendosi come sia possibile che io sia così incredibilmente chiara. Di bianchi, loro, non ne hanno mai visti. Un uomo ubriaco mi chiede se sono venuta a rubare la sua terra, una seconda volta.
Una ragazza mi domanda come realizzare il suo sogno di diventare un dottore se, a soli 13 anni, essendo orfana di padre, deve lavorare per mantenere la sua famiglia.
Ogni domenica, alle 11, si va in chiesa. Dura circa tre ore e si canta a squarciagola, si prega, si legge la Bibbia. Hanno perfino chiamato un interprete per far sì che anche io comprenda la cerimonia. La chiesa è una stanza piccola, senza finestre, senza tetto, semplice. Ci saranno una quarantina di persone e, nonostante il caldo sia insopportabile, nessuno accenna una lamentela. La religione è sinceramente uno dei pilastri della loro cultura.
Successivamente, si mangia. Alla base della loro alimentazione c'è il mais, tant'è vero che ogni famiglia ha il suo piccolo terreno in cui viene coltivato. Le porzioni sono spropositate! Riso, pap, barbabietole, pane, marmellata, carne di dubbia provenienza, tutto nello stesso piatto, e, soprattutto, pollo. Il pollo che io e la mia sorellina ospitante abbiamo allegramente sgozzato alle 6 di mattina, dopo aver lavato i panni a mano (a regà, è difficile).
Quando si parla di shock culturale...
Piccolo ma interessante particolare: il bagno si trova in giardino, è una minuscola stanza con una specie di fossa nel terreno. La "porta" è una piccola lastra di ferro. Alla fine, non è male. La vista dà alle montagne ed in più puoi godere della piacevole compagnia dei vicini. La doccia? Una bacinella ed una brocca d'acqua calda.
Durante queste due settimane ho provato molteplici emozioni ma mai e dico mai ho avuto difficoltà ad adattarmi. Il fatto è che siamo fatti per vivere così, fra la semplicità e la natura. L'adattamento è, a mio parere, lo sforzo che dobbiamo svolgere ogni giorno nel non impazzire rinchiusi in una giugla di strade e di città.
Esperienze che ti aprono la mente.